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Messaggio di avviso

  • L'orso del Zoc

    Una sera eravamo tutti intorno al focolare, nella baita del Zoc, e si conversava e si fumava come stasera. Tutto ad un tratto, mi girai, e credetti di cadere svenuto; sulla porta c'era Martin che mi guardava con i suoi piccoli occhi lucidi, come se avesse voluto scegliere il boccone migliore.
    L'orso! gridai.
    Tutti si alzarono urlando ma Martin vedendo il pencolo, se l'era filata.
    Ci si affrettò a raccoglier dei tizzoni, si riempì una padella con della brace e ci mettemmo a gridare come degli indemoniati.
    C' era con noi X, il cacciatore.
    Prese il suo fucile a due colpi e si lanciò sulle tracce dell'orso.
    Noi, per non apparire vigliacchi lo seguimmo con tizzoni e la padella piena di brace. Vedemmo l' orso che risaliva a grandi passi la pastura.
    Poichè filava, vinti dal coraggio seguimmo la strada dell'orso agitando fucile e tizzoni ed urlando.
    Ma lassù, vicino ai larici, ecco che l' orso si gira, si alza sulle zampe posteriori ed avanza verso di noi.
    La sua mossa era inattesa.
    Ci fu una fuga generale.
    Lanciammo dietro a noi i tizzoni per spaventare l'orso.
    Colui che reggeva la padella la lasciò rotolare lungo le rocce con un baccano infernale. Rientrammo nella baita barricando l'ingresso con qualche panca.
    Ma allora ci accorgemmo che X mancava.
    Povero diavolo, l'orso l'ha mangiato!
    Si diffuse un sincero scoramento, ma ci rincuorammo ben presto riflettendo che, dopo
    Tutto era meglio che l'orso avesse mangiato X piuttosto che uno di noi.
    Ma nello stesso tempo una formidabile pedata fece cadere le panche che barricavano la porta ed X entrò tutto sporco di terra:
    "Bel coraggio, razza di cani! Se al posto di scappare foste rimasti con me avremmo l'orso!" E ci raccontò che l'orso si era lanciato su di lui quando gli aveva sparato, ma il colpo non era partito e nell'arretrare di un passo, era caduto, gambe all'aria, dentro al torrente.
    S'era creduto perso, ma l'orso era rientrato tranquillamente nel bosco.
    Figli di cane, concluse X, se foste stati l' avremmo catturato.
    In che modo noi l'avremmo potuto prendere, con dei tizzoni ed una padella, mentre X era infangato, è quello che egli non ci ha mai spiegato.

     

    dal libro "GIOVANNI BONOMI Guida Alpina" di Marino Amonini
    ed. Biblioteca Civica di Piateda, 1985
    traduzione dal libro del Prof. Bruno Galli Valerio "Cols et Sommets" Losanna e Parigi 1912

  • Il basilico

    Nelle serate tranquille d'estate racconteremo le nostre avventure di montagna e di caccia, mentre la luna diffonde la sua bianca luce malinconica su tutta la vallata ed in lontananza brillano i ghiacciai del Disgrazia e del Bernina.
    A poco a poco, ciascuno avrà un'avventura o una leggenda da raccontare.
    C'è in primo luogo la leggenda del "basilisco", il serpente dalla cresta rossa, che si vede di tanto in tanto sui pascoli di Caronno.
    L'hai mai visto? domandai un giorno ad un pastore.
    Si l'ho visto, rispose spalancando gli occhi, additando, tenendosi a rispettosa distanza, la bella vipera stesa dentro il mio cestino da erborista, in mezzo ai fiori dai colori brillanti, io l'ho visto come vedo questo serpente.
    Ciò che il pastore diceva d'aver visto era il grande serpente dalla cresta di fuoco, dagli occhi ruotanti nelle orbite: il "basilisco".
    La cresta era almeno dello spessore d'un grosso dito.
    L'aveva visto lui stesso lassù, tra i cespugli di rododendri nella valle del Caronno, potete immaginare il suo spavento.
    Non aveva osato inseguirlo così come non osava toccare la mia vipera, nonostante fosse morta.
    Non si sa mai!
    Tutti gli altri pastori erano riuniti attorno a noi, gli occhi fissi sulla povera vipera, le orecchie tese all'ascolto del fantastico racconto del loro compagno.
    A poco a poco, presi dalla suggestione delle sue parole, la mia vipera cresceva ai loro occhi, la cresta cominciò a manifestarsi sulla sua testa, una cresta ancora molto piccola, appena visibile gli occhi cominciarono a ruotare nelle orbite... e l' anno dopo tutti lassù raccontavano il fantastico fatto d'un grosso serpente dalla cresta rossa, che avevo abbattuto sulle pendici dello Scotes e che tutti avevano visto, gli occhi ancora spalancati, nel mio cestino di erborista!
    La leggenda del "basilisco" era stata anche confermata per il fatto che non poteva adesso essere messa in dubbio dai giovani pastori che ormai potevano testimoniare con i vecchi dell' esistenza di questa orribile bestia, là, al centro delle Alpi Orobie.
    Un giorno o l'altro, mi prenderanno come testimone!

     

    dal libro "GIOVANNI BONOMI Guida Alpina" di Marino Amonini
    ed. Biblioteca Civica di Piateda, 1985
    traduzione dal libro del Prof. Bruno Galli Valerio "Cols et Sommets" Losanna e Parigi 1912

  • Il grande becco

    Anche i racconti sui camosci occupano buona parte delle serate di Scais.
    E' il grande becco che vive solitario nei boschi del Mottolone, che si vede sempre, ma che non si acchiappa mai, come se fosse posseduto dal diavolo viagra prezzo.
    Poi il camoscio che abbiamo ammazzato sulle creste della Brunone e che era caduto dentro ad un crepaccio.
    L'abbiamo ritrovato verso sera.
    Mi avevano calato nel crepaccio con una corda ed alla luce azzurra che filtrava attraverso il ghiaccio, l'avevo trovato su uno sperone della parete, la testa fracassata, un occhio grande, triste, che mi guardava.
    Poi, mentre lo si recuperava, ero rimasto laggiù, solo, e così separato dal mondo, mi sembrava di vedere sempre lì davanti a me il camoscio rialzarsi come un rimprovero.

     

    dal libro "GIOVANNI BONOMI Guida Alpina" di Marino Amonini
    ed. Biblioteca Civica di Piateda, 1985
    traduzione dal libro del Prof. Bruno Galli Valerio "Cols et Sommets" Losanna e Parigi 1912

  • La poesia delle Alpi

    La luna era scomparsa, le pipe s'erano spente.
    Era giunta l'ora del coprifuoco.
    Ci augurammo la buonanotte.
    Risalendo tutto solo alla capanna di Scais, mi apparve una visione lungo il sentiero della Valle di Caronno: un enorme orso se n'andava, dritto sulle zampe posteriori, dando il braccio ad una superba figura di donna avvolta da veli.
    Era la bella, sublime poesia delle Alpi, che se ne andava con l'orso, che se ne andava per sempre.
    Con il rumore della cascata del Caronno mi giungeva la voce del vecchio Domenico, colui che, nonostante la zampata dell'orso, non gli aveva serbato rancore: "Mio caro signore, che si dica ciò che si vuole, ma una montagna senza orsi è come un bosco senza uccelli".
    Degna orazione funebre per il grande solitario delle Alpi che oggi, noi tutti che l'abbiamo ancora conosciuto, piangiamo uno scomparso.

     

    dal libro "GIOVANNI BONOMI Guida Alpina" di Marino Amonini
    ed. Biblioteca Civica di Piateda, 1985
    traduzione dal libro del Prof. Bruno Galli Valerio "Cols et Sommets" Losanna e Parigi 1912

  • L'è fo l'genarun

    Anche in Valtellina sussiste la credenza che gli ultimi tre giorni di gennaio (o, con qualche variante, il 31 gennaio ed i primi due giorni di febbraio) siano i più freddi dell'anno, e qui, come in molte altre zone della Lombardia, essi vengono chiamati i "giorni della merla". Si crede anche, però, che rappresentino una svolta, l'ultima e più temibile morsa del gelo invernale, prima che la cattiva stagione cominci, gradualmente ma ineluttabilmente, ad allentare la sua presa. A questa convinzione si lega una tradizione scherzosa assai diffusa nella valle: il 31 gennaio ed il 2 febbraio bambini, ragazzi ed anche adulti fanno a gara, ricorrendo a qualche scusa, per indurre le vittime prescelte ad affacciarsi, sul far della sera, all'uscio di casa, gridando poi, nel primo caso "L'è fö 'l genarùn", cioè è terminato il lungo mese di gennaio, nel secondo "L'è fö l'urs de la tana", cioè è uscito l'orso dalla tana. Giuseppe Napoleone Besta, nei suoi "Bozzetti Valtellinesi" (Bonazzi, Tirano, 1878), riporta un fatto singolare legato a questa usanza, narratogli da una sua zia. Non cita il paese in cui avvenne, ma, da un accenno ad una salita sul pizzo di Rodes e da altri dettagli, possiamo supporre si tratti di Piateda. Qui, al tempo delle guerre napoleoniche (inizio Ottocento) viveva un'agiata famiglia di contadini, composta dai coniugi Lorenzo e Caterina Ronchetti e da tre figli, un maschio e due femmine. La storia ha come protagonista una delle due, la più grande, Maddalena, chiamata Lena, "una giovane alta", dai "lineamenti un po' grossolani, ma ben fatti", dai modi spigliati, allegri ma decisi, tanto da essere spesso apostrofata, anche per i sonori ceffoni che non mancava di assestare ai corteggiatori troppo focosi, come "la bella maschiotta", cosa di cui si compiaceva assai. Costei aveva raggiunto i diciotto anni, età nella quale appariva del tutto naturale, a quei tempi, che una giovane cominciasse a guardarsi seriamente intorno per trovare un giovane a modo, da prender per marito. Lena, tuttavia, nonostante, per l'agiatezza della famiglia, il buon carattere ed il l'aspetto gradevole, fosse oggetto della corte di molti giovani del paese, non sembrava affatto darsi pensiero di questo: era amica di tutti, ma non si legava a nessuno, e sembrava aver a cuore solo di trascorrere quegli anni felici aiutando la famiglia, godendo delle gioie dell'amicizia e conservando quel "carattere...spensierato oltremodo", che "se ne rideva di tutti gli spasimanti che le facevano la corte". Fra i giovani che desideravano conquistare il suo cuore vi era Antonio Pomelli, figlio venticinquenne di uno dei più ricchi contadini del paese, "bello e onesto giovanotto, di un carattere burlone e allegro proprio come quello di Lena". Date le affinità elettive, i due giovani stavano assai bene insieme, ma intendevano quello stare insieme in modo del tutto diverso. Antonio, che frequentava assiduamente la casa dei Ronchetti, prestando volentieri la sua mano nelle diverse opere della campagna, faceva una corte serrata ma discreta alla ragazza; Lena, invece, era contenta di poter passare con lui momenti spensierati ed allegri, ma lo considerava un amico carissimo, ed anzi, più ancora, un fratello, per il quale nutrire il più acceso degli affetti, ma, appunto, un affetto fraterno. Le cose andarono avanti così, per un bel pezzo: egli non perdeva occasione per cercare di mostrarle quanto le volesse bene: non mancava mai nelle lunghe serate invernali passate nella stalla a famiglia riunita, serate nelle quali tutti pendevano dalle labbra di nonna Margherita, che non mancava mai di raccontare qualche storia fantastica ed avvincente; non perdeva occasione per venire incontro ai desideri della ragazza, tanto che una volta, avendola sentita lamentarsi, nella calura estiva, per la mancanza di acqua fresca e ristoratrice, salì fino al piccolo ghiacciaio del pizzo di Rodes, riempiendosi la bisaccia di neve, per poi portarla all'amata, ed un'altra volta, avendola sentita esprimere il desiderio di possedere un uccello canterino da tenere in gabbia, rischiò la vita su arrampicandosi su un dirupo pur di catturare quattro piccoli passeri da regalarle. Gesti di inequivocabile significato, che però non valsero a nulla: mentre la sorella minore Rosina si decideva alle nozze con un bravo giovane, lei, sempre affezionatissima al suo Antonio, a tutto sembrava pensare, fuorché a fare lo stesso. Il giovane non sapeva più a cosa appigliarsi: l'amore diventava sempre più struggente e l'atteggiamento di Lena lo feriva in misura sempre maggiore. L'autunno del 1811 lo trovò in questo penoso stato d'animo. Una sera, però, parve giunta l'occasione per dichiararsi: Lena lo invitò ad una passeggiata presso le rive dell'Adda, durante la quale, vedendolo triste ed incupito, gli chiese cosa mai avesse. Egli allora sbottò: come aveva potuto non accorgersi di quello che lo affliggeva, dopo tanti gesti, dopo tanta frequentazione? Lei rimase sorpresa dal suo sfogo, gli rispose, candidamente, che non aveva la minima idea di cosa potesse tanto contristarlo, al che lui, al colmo della disperazione, gridò che si sarebbe buttato nell'Adda, e così voleva effettivamente fare. Corse, come fuori di sé, fino alla riva del fiume, e solo il grido dell'amata, che lo richiamava alla ragione, valse a fermarlo, proprio mentre stava per abbandonarsi alla corrente del fiume. Lena lo raggiunse trafelata, e lo scongiurò di manifestare quel che aveva nel cuore. Fu così che Antonio, per la prima volta, trovò il coraggio di dire con le parole ciò che pensava di aver detto nei gesti, purtroppo invano, mille e mille volte: le disse che l'amava, e che non poteva pensare di continuare a vivere senza il suo amore. Al che l'amata, fortemente scossa dalle sue parole, per la prima volta aprì uno spiraglio di speranza nel suo cuore: "Fermatevi..." gli disse piangendo, "ve lo comando...Andiamo a casa, Antonio. Ci penserò, sperate. Forse la Madonna benedirà le mie preghiere". "Grazie Lena,", fu la sua risposta, "voi mi donate la vita, spererò". Ma dovettero passare ancora alcuni mesi prima che l'amore potesse trionfare. Passò l'autunno, non senza un altro fatto memorabile: Antonio ebbe modo di salvare addirittura la vita di Lena, sventando l'attacco di un toro, infuriato per la giubba e la pezzuola rosse che lei indossava. Salvata dal suo intervento tempestivo (lanciandogli contro il forcone, Antonio era riuscito ad arrestare la corsa del possente animale), continuò assiduamente a pregare. Ma non aveva perso il carattere gioviale e burlone. Giunse, così, il gennaio del 1812, uno dei più rigidi e terribili a memoria d'uomo, con la temperatura che scese di 20 gradi sotto lo zero. "I lupi che in quell'anno desolavano la Valtellina", scrive il Besta," scendeano a torme nei paesi in cerca di preda, e non temeano avvicinarsi a fiutare le porte delle stalle e a pascersi delle feci dei giumenti sulle vie. I contadini accendeano grandi fuochi poco lungi dalle case onde tener lontane quelle feroci belve che urlavano di freddo e di fame nel silenzio della notte". Venne anche il 31 gennaio: Lena non perse l'occasione per rinnovare gli scherzi tanto amati, si travestì con panni maschili, avvolgendo il volto in uno scialle di lana, per non farsi riconoscere, e si incamminò, la sera, verso la casa di Antonio. Era decisa a vincere la scommessa, fatta con lui, che sarebbe riuscita, lei per prima, a farlo uscire dalla casa, secondo l'antichissima tradizione. Giunta sull'uscio, lo chiamò, cercando di imitare la voce del dottore del paese, il signor Carlo. Antonio udì la voce e cadde nell'inganno: dopo aver gettato un'occhiata da una finestra al primo piano, prese il lume e si accinse a scendere per aprire. I fatti, nel giro di pochi istanti, però, precipitarono: Lena, vinta dal freddo atroce, si sentì venir meno e cadde a terra svenuta. Un branco di lupi, che l'aveva seguita, subito si avventò su di lei, trascinandola per la via e cercando di strapparle di dosso i panni nei quali era avvolta. Antonio, aperto l'uscio, vide la scena e, senza esitare, afferrò un'ascia, scagliandosi contro le belve e disperdendole con vigorosi colpi vibrati con decisione e precisione. Solo allora, scoprendo il capo di quel fagotto di forma umana, vide, con raccapriccio, che si trattava di Lena! Per la seconda volta, in pochi mesi, le aveva salvato la vita. Fu la volta buona, perché Lena, dopo essersi riavuta, nel tepore della casa, vinta da tanto amore, non poté fare a meno di esclamare: "Antonio! Tu sei grande; tu sei il più nobile, il più magnanimo uomo della terra. Antonio, perdonami se fin ora non ho appagato l'amor tuo benedetto! Sento adesso che non meriti solo il mio, ma tutto l'amor dell'universo. Antonio! T'amo, t'amerò sempre e sarò tua per l'eternità." Le sospirate nozze non tardarono ad essere celebrate, e la camera dei novelli sposi fu adornata da tre tappeti di pelle di lupo. Antonio benedisse sempre l'usanza di chiamar fuori il gennaio: senza di quella, infatti, forse non sarebbe mai giunto a coronare il suo sogno.


    dal sito www.waltellina.it a cura di Massimo Dei Cas

  • L'orso chirurgo

    Ma il Legnone ha avuto il più famoso degli orsi: l'orso chirurgo.
    Un gozzuto che se ne andava in Val Lesina vide due orsacchiotti che si divertivano in un bosco.
    Era un\'ottima occasione per impadronirsene.
    S\'avvicinò tranquillamente, ma l'orsa che era accovacciata, si lanciò su di lui, lo gettò per terra e con una zampata gli aprì il gozzo.
    Ne uscì un secchio d'acqua ed il povero diavolo si sentì tutto sollevato perché respirava meglio.
    Quando ridiscese al piano tutti furono stupiti: «Dove hai lasciato il tuo gozzo?».
    E tutti seppero allora che in Val Lesina c'era un celebre chirurgo, specialista in interventi al gozzo.
    La leggenda dell'orso chirurgo divertì moltissimo tutto il gruppo che mi richiese altre leggende orsine, ma queste erano finite con gli orsi che le avevano generate.
    Non riuscii a ricordare che l'orso fantasma delle fitte foreste della Valle del Gallo.
    C'è o non c'è?
    Io stesso ne ho visto le tracce lassù, verso la Scera, presso un albero sul quale era inchiodato un cranio umano.
    E una volta che mi ero perso verso il Ponte del Gallo, ad ogni scricchiolio dei rami mi sembrava di averlo alle spalle.
    Altri affermano di averlo incontrato.
    I pastori bergamaschi dicono che di tanto in tanto uno dei loro montoni spariva e non ne trovavano più alcuna traccia.
    Se questo non è opera del diavolo, concludono, deve ben essere l'orso.
    E' l'orso fantomatico che appare e scompare, che viene segnalato contemporaneamente in punti completamente opposti, che vive lassù nell'ultimo bosco vergine delle Alpi, l'ultimo guardiano delle leggende sugli orsi della montagna.

     

    dal libro "GIOVANNI BONOMI Guida Alpina" di Marino Amonini
    ed. Biblioteca Civica di Piateda, 1985
    traduzione dal libro del Prof. Bruno Galli Valerio "Cols et Sommets" Losanna e Parigi 1912
    Ultimo aggiornamento Lunedì 22 Marzo 2010 09:42

  • L'orso del Principe X

    Poi inizia il giro delle leggende «sugli orsi».
    In queste splendide serate di luna, là, sugli alti pascoli di Scais nei boschi che avevano costituito l'ultimo rifugio dell'orso eravamo tutti raggruppati in circolo, seduti su vecchi sgabelli e tronchi d'albero, fumando le nostre pipe.
    E con il fumo che saliva in sottili spirali, nell'aria tranquilla delle serate settembrine, i nostri pensieri correvano ben lontano, all'epoca poetica in cui gli orsi esistevano ancora, dove questi splendidi rappresentanti della fauna delle Alpi formavano ancora, con l'aquila ed il camoscio, la grande, la superba poesia delle Alpi.
    Questa poesia se ne va, come se n'è andata la poesia africana dell'epoca dei Livingstone e dei Stanley, cacciata dalla civilizzazione.
    E in queste serate così belle, quasi senza volerlo, cominciammo a discorrere del povero burlone che di giro in giro fece ridere e spaventare gli abitanti delle Alpi.
    Le storie si susseguivano le une alle altre, mentre le pipe sbuffavano e la luna rischiarava la valle e le lontane cime innevate.
    Chi ha dimenticato, cominciò uno di noi, le celebri battute del principe X che voleva ad ogni costo abbattere un orso?
    Fucili e provviste a tutti ma sfortuna a chi ammazzava l'orso!
    Bisognava spingerlo verso il principe, il solo autorizzato ad ammazzarlo.
    Tutta la vallata era in movimento.
    Chi aveva visto l'orso in alto, chi in basso, chi in un bosco, chi su una pietraia!
    Il principe con il suo seguito e gli altri si collocarono in cerchio per la battuta.
    Attenzione! L'abbiamo visto! Arriva!
    Il principe spalancava gli occhi tormentando i grilletti della sua carabina.
    Ma l'orso non arrivava mai.
    E non arrivò mai.
    — Se il principe l'avesse abbattuto, concluse il pastore, non sarebbe più tornato e la cuccagna sarebbe finita.
    Ma la fine della festa giunse lo stesso poiché, il principe, annoiato dalla farsa, non si fece più vedere.
    Ma allora, continuò un altro pastore, gli orsi cominciarono a mostrarsi.

     

    dal libro "GIOVANNI BONOMI Guida Alpina" di Marino Amonini
    ed. Biblioteca Civica di Piateda, 1985
    traduzione dal libro del Prof. Bruno Galli Valerio "Cols et Sommets" Losanna e Parigi 1912

  • L'orso della Val di Togno

    Ma se non avevo mie leggende sugli orsi da raccontare, ne avevo ascoltate così tante nelle mie escursioni attraverso le Alpi che non mi mancava certamente materiale.
    Iniziai allora con la storia dell'orsetto della Val di Togno che tante volte mi aveva raccontato il povero diavolo che l'aveva abbattuto e che ora, amputato di una gamba, passava le giornate al sole all'ingresso della vallata.
    Da dove era arrivato questo orsetto?
    Nessuno lo seppe mai.
    A memoria d'uomo non si era mai visto un orso in Val di Togno e questo apparve improvvisamente, miserabile vagabondo, al centro delle pietraie.
    Il brav 'uomo l'aveva visto ed era corso a cercare un forcone.
    L'orsetto, spaventato, s'era nascosto sotto ad un grosso masso.
    Il nostro cacciatore prese una grossa pietra e s'arrampicò sul masso: l'orso grugnì così forte, diceva il povero diavolo, che il masso tremò!
    Aspetta e aspetta, l'orso si decise ad andarsene ed allora il nostro uomo lo colpì con la grossa pietra.
    La povera bestia era «talmente grossa» che quando il nostro cacciatore la portò in
    prefettura per riscuotere la taglia, non gliela volevano dare, perché lo si diceva un «Ursus Formicarius».
    La grave questione fu risolta da un macellaio, che lo giudicò un vero orso, per quanto giovane.

     

    dal libro "GIOVANNI BONOMI Guida Alpina" di Marino Amonini
    ed. Biblioteca Civica di Piateda, 1985
    traduzione dal libro del Prof. Bruno Galli Valerio "Cols et Sommets" Losanna e Parigi 1912

  • L'orso ed il toro

    A questo punto del mio racconto, uno dei presenti scoppiò a ridere ed esclamò: «Era come l'orso di P.».
    Quest' ultimo, come sempre, sollevò le spalle sdegnosamente: «Chi ride provi a catturarne uno come il mio».
    Io continuai e li condussi sull'alpe dei Campelli, verso un altro grande rifugio degli orsi. Una sera, Domenico aveva sentito una delle sue capre strillare disperatamente.
    Si sentì spezzare il cuore e non poté più restare nella sua baita.
    Prese una scure ed andò a vedere.
    Un orso aveva gettato in terra una capra e stava per divorarla.
    Domenico afferrò una gamba della capra e tentò di strapparla all'orso.
    L'orso teneva duro e l'altro tirava sempre.
    Ma infine Martin trovò la farsa un po' troppo lunga.
    Con una zampata fece rotolare per terra Domenico, la schiena aperta, e se ne andò
    con la sua capra.
    Domenico porta ancora la traccia della carezza orsina ma da buon filosofo, dice: «Se avesse voluto, avrebbe potuto mangiarmi come ha mangiato la mia capra» e siccome Martin non lo fece, Domenico ha conservato un eccellente ricordo degli orsi.
    In Val Cervia gli orsi avevano trovato un terribile nemico.
    Non li affrontava con il suo fucile, ma tendeva loro delle trappole.
    Enormi tagliole in ferro, fissate con catene, erano tese nei boschi.
    Si racconta che 11 orsi vi hanno lasciato la pelle.
    Un grosso orso, preso nelle zampe posteriori, s'era talmente dibattuto che era caduto a testa in giù, lungo le rocce a picco sospeso alla trappola.
    I suoi ululati di dolore erano così forti che si udirono per tutta la notte fin all'altra sponda della vallata.
    Ma gli orsi hanno, come gli uomini, qualcuno che li vendica.
    Parecchi anni dopo, in una di queste trappole, fu preso il figlio del cacciatore e ne ebbe la gamba spappolata.
    Gli orsi erano vendicati.
    Ma laggiù, sulla costa del Legnone, gli orsi erano feroci e burloni: tutti ne hanno sentito parlare.
    Per molto tempo Legnone ed orsi sono stati una cosa sola.
    Mi sembra ancora di vedere l'enorme bestia dalla pelliccia pressoché nera che s'era lanciata contro due cacciatori ferendone gravemente uno prima di capitolare sotto i colpi dell'altro.
    Un altro orso se n'andava tranquillo un giorno lungo un sentiero della Val Lesina, quando incontrò un toro.
    Il sentiero era così stretto che i due animali si fermarono fissandosi negli occhi.
    Poi l'orso si leccò le labbra: da molto tempo non gli era capitato sotto le unghie un simile boccone!
    Si drizzò grugnendo sulle zampe posteriori e si gettò sul toro, ma quest' ultimo, più agile, abbassò la testa e con un abile cornata inchiodò l'avversario contro le rocce aprendogli il ventre.
    Il povero Martin lasciò cadere sul petto la sua grossa testa dagli occhi spenti, ma rimase diritto perché il toro, nel timore che fosse ancora vivo, lo teneva inchiodato alle sue corna.
    Alcuni dicono che il toro è rimasto nella stessa posizione fino a morir di fame ma altri assicurano che i pastori lo liberarono tre o quattro giorni dopo guadagnandosi la pelle dell'orso.

     

    dal libro "GIOVANNI BONOMI Guida Alpina" di Marino Amonini
    ed. Biblioteca Civica di Piateda, 1985
    traduzione dal libro del Prof. Bruno Galli Valerio "Cols et Sommets" Losanna e Parigi 1912

  • L'orso "tascabile"

    Era venuto il momento di raccontare per P.*
    Si credeva quasi un eroe per aver abbattuto un orso. Così raccontò
    Pochi giorni prima gli era capitata una fortuna simile: quelli d'Ambria, sopra alla «Spazzada» avevano abbattuto una grossa orsa.
    I due orsacchiotti che l'accompagnavano erano scomparsi.
    Ora P., essendosi recato nei prati sopra ad Agneda, aveva visto qualcosa di nero che si muoveva nel greto del torrente.
    Con sorpresa, constatò che si trattava di un orso.
    Corse a cercare il suo fucile, si accovacciò dietro ad un masso e...pam!
    L'orso cadde fulminato.
    — Era un orsacchiotto magro che si reggeva a mala pena in piedi, uno dei due a cui avevano ucciso la madre e che si aggirava già da qualche giorno nei dintorni — osservò uno di quelli che erano rosi dall'invidia per non aver potuto fare il colpo fatto da P.
    Questi si strinse nelle spalle, disdegnando di rispondere.
    Per un orso, e tale lo era, gli era stata pagata la taglia come tale.
    A lui poco interessava che fosse magro o grasso. Che altri ne abbattessero di migliori.
    Gli altri, allora, raccontarono dell'enorme orso che si aggirava nel bosco di Mottolone terrorizzando gli alpeggi di Scais e Caronno, dove appariva di tanto in tanto per sbranare una capra.
    Quello si che era un orso!
    Un giorno, si era visto entrare sotto ad un enorme masso che formava quasi una caverna. Si andò a cercare su tutti gli alpeggi dei fucili e si disposero tutti intorno all'apertura della caverna con un sistema di funicelle e leve che avrebbero dovuto abbattere l'animale con una formidabile scarica.
    Ma Martin, coi suoi piccoli occhietti, li guardava fare dal fondo del suo buco e sorrideva.
    La notte, sull'alpe di Caronno, si tesero gli orecchi.
    Si attendeva ad ogni istante la scarica dei fucili.
    Ma ad un tratto giunse il grido spaventato di una capra che veniva sgozzata.
    — L'orso! esclamarono tutti rannicchiandosi nella piccola baita.
    All'alba si andò a vedere.
    Una capra era scomparsa.
    Si risalì alla caverna: tutti i fucili erano ancora in posizione ed i colpi non erano partiti.
    Girando intorno al masso, ci si accorse che, sotto i cespugli, c'era una buca che comunicava con la caverna.
    Martin era uscito tranquillamente da là, lasciandovi solo qualche pelo ed aveva ricominciato le sue imprese.

    *Identificabile come sig. Parora, autore della cattura dell' «orso tascabile»

     

    dal libro "GIOVANNI BONOMI Guida Alpina" di Marino Amonini
    ed. Biblioteca Civica di Piateda, 1985
    traduzione dal libro del Prof. Bruno Galli Valerio "Cols et Sommets" Losanna e Parigi 1912